Memoria e progetto
di Fabrizio M. Rossi
In quest’improvvisata, piccola rete di ospitalità messa su in questi giorni con alcuni amici sulla costa abruzzese, i bambini aquilani che sono con noi si svegliano spesso di notte, terrorizzati dal minimo rumore o dalle scosse che si sentono forti fin qui; ogni tanto cògli lo sguardo perso nel vuoto dei loro genitori, e qualcuno tra loro piange all’improvviso: L’Aquila non esiste più, ripetono, raccontando con parsimonia e dignità le storie della catastrofe che non conoscete, perché “il dolore degli altri è sempre un dolore a metà”.
Venticinque anni fa mi innamorai dell’Aquila. La scelsi come città d’elezione non tanto per le origini della famiglia di mio padre – io, nato e cresciuto a Roma – quanto perché mi apparve come un’autentica città: un fenomeno degno del nome di ‘civitas’, seppure in una provincia abbastanza remota. Mi innamorai del colore delle pietre e delle sovrapposizioni urbanistiche: dalla città sveva a quella angioina, e ancora avanti nei secoli, fra ragnatele di viuzze ombrose in cui perdersi amabilmente e improvvise aperture di luce, fra cortili silenziosi e prospettive verso i tremila metri del Gran Sasso, lì, a portata di mano. Una festa, per un foto/grafico agli esordi come me, in cerca di una ‘terra di frontiera’ dove tentare l’avventura.
Ma una città – una ‘civitas’ – non è fatta soltanto di pietre. L’Aquila era fatta di musica e di musicisti, con un Conservatorio e un’orchestra tra i migliori d’Italia e i grandi concertisti che si esibivano lì in anteprima, per ‘provare’ il programma. L’Aquila, quando vi arrivai, era fatta di artigiani che animavano la città ovvero quello che, con sciagurata espressione, venne poi chiamato ‘centro storico’ e rapinato dalle agenzie immobiliari: ma quella era la città vivente, allora, altro che vetrine di negozi di lusso e saracinesche di banche, morte di notte: era rumore di attrezzi, odore di segatura, parole e imprecazioni: vita. I prezzi delle case vecchie erano abbordabili anche per noialtri mortali, e ci si divertiva a rimetterle su con entusiasmo, ricoprendoci di mutui a cuor leggero. L’Aquila era fatta del grande mercato in piazza Duomo, con le contadine che vendevano la ‘misticanza’: l’insalata d’erbe raccolta all’alba sulla montagna: insuperabile. Si viveva girando la città a piedi; qualche volta con gli sci da fondo, perché L’Aquila aveva un clima a dir poco austero, d’inverno, ma d’estate era profumata e tiepida. In giro c’erano i matti ‘storici’, intoccabili e monumentali: Libero, col suo verdetto invariabile: “che mondo, che mondo…”, e Riziero, che per farlo davvero felice bastava regalargli una foto qualsiasi. Si andava a bere vino e a mangiare prosciutto e formaggio dal Boss, e a discutere fino ad esaurimento delle scorte. La memoria di cui parlo non è fatta dei grandi monumenti, di cui peraltro L’Aquila era incredibilmente ricca, novantanove volte ricca: è la memoria del vissuto e del tessuto urbano che rimandano l’uno all’altro e si determinano l’uno con l’altro, con quel segno irripetibile del tempo e del luogo.
Mi innamorai, insomma: succede. A poco a poco cominciai a capire e ad apprezzare le qualità un po’ ruvide dei suoi abitanti: non parlo di musicisti e artisti, che venivano quasi tutti da fuori e formavano una comunità un po’ speciale; parlo degli aquilani veri, che hanno un loro segno distintivo in cui si riconoscono, qualcosa di rugbystico e di alpino che li accomuna nella fierezza e nella solidità: a dispetto dei terremoti.
Il terremoto è la manifestazione di una forza che credevamo di aver sepolto e che dorme lì, da qualche parte, sotto terra e nelle nostre menti, per poi svegliarsi all’improvviso urlando (“come il vento”, mi ha detto oggi Maya, quattro anni). È una forza terrificante – parola più che mai appropriata – che mette a nudo aspetti radicalmente opposti dei comportamenti umani: dalla fraudolenza più sordida di costruttori e politici in combutta, di sciacalli mediatici di ogni sorta, che aggrava l’inevitabile e ci dovrebbe spingere alla rivolta, fino alle meraviglie semplici della solidarietà, che alleviano il dolore e ci fanno credere ancora nella possibile umanità.
La fraudolenza umana è palese nei crolli a L’Aquila degli edifici più recenti, pubblici e privati, come l’Ospedale nuovo: trent’anni per farlo, inaugurato una decina d’anni fa, rovinato in trenta secondi; come la Casa dello studente, che di studenti ora ne ha uccisi molti; come le palazzine in finto cemento armato dei palazzinari del dopoguerra, vendute a carissimo prezzo e in un attimo accartocciate su loro stesse.
Ricostruire: certamente, e questo è il progetto. Il problema è, come sempre, la mediazione fra cultura del fare e cultura del sapere. Una cultura del sapere priva dell’esito nel fare è puro vaniloquio, ma una cultura del fare senza la guida del sapere è come bendarsi gli occhi e menare randellate a caso.
L’esempio della ricostruzione dopo il terremoto della Val di Sangro del 1984, sempre in Abruzzo, è utile e pertinente. I comuni che, per l’affidamento degli appalti per la ricostruzione, decisero di privilegiare i criteri di qualità, affidando gli incarichi a imprese competenti e motivate dal rispetto del territorio, hanno realizzato ricostruzioni esemplari: le pietre delle macerie furono numerate una ad una, vennero realizzate strutture antisismiche sulle quali fu ricostruito a regola d’arte in base alla documentazione esistente, rimettendo ogni pietra al proprio posto; ci vollero otto anni, ma il lavoro fu ineccepibile. Viceversa, i comuni che puntarono al ribasso vennero ricostruiti malamente da imprese con la sola motivazione del lucro ed ora hanno il caratteristico aspetto di periferia urbana qualunque, con gravissime carenze funzionali, come si conviene ad una periferia urbana.
La memoria alimenta il progetto; il progetto guida il fare. E tutto questo, nell’àmbito urbanistico di cui si sta parlando, dovrebbe essere governato da autorità provviste di qualità etiche. Ma forse è come chiedere a un calunniatore di farsi arbitro delle controversie, o a un arrogante prevaricatore di dar lezioni di democrazia.
I grandi monumenti di L’Aquila saranno ricostruiti a perfezione, ne siamo abbastanza certi. Il problema è quel tessuto urbano di cui raccontavo. Se mai avremo la forza di ricostruire la nostre case di L’Aquila ci auguriamo che ‘il legislatore’ disponga in modo che si possa rispettare la memoria. Ovvero: che il sostegno economico alla ricostruzione si possa/debba tradurre in qualità funzionale, estetica e dunque esistenziale. Senza l’illusione di ricostruire quel che è stato ma, almeno, senza incamminarsi forzatamente verso una radiosa “L’Aquila 2”, con annesso centro commerciale ove splende il sol dell’avvenir. Amen.
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